Sono uscita a camminare per respirare un po' di prana. Ho osservato il verde intenso dei prati. Nei campi spuntano i primi fiori con tinte delicate.
Come osservatore esterno sento di condividere alcuni pensieri: l'espandersi del virus fa sì che due mondi così lontani (Cina e Italia) entrino in contatto generando reazioni contrastanti con il rischio di essere portate in estremo. Le parole possono essere fraintese e manipolate, non capite.
L'avvertimento di un senso di “colpa” verso il proprio o altrui Paese può fare molto male. Nell'osservare le reazioni al blocco e all'isteria, percepisco che la responsabilità è di tutti, a livello mondiale.
Il senso di colpa è come un "coronavirus", non ha una sua identità, è un pregiudizio. Piuttosto chiediamoci: che cosa ci sta chiedendo di fare (o di non fare)? Ci chiede di ritornare a casa, di stare in famiglia, di rivedere il proprio stile di vita, di portare più attenzione alla pulizia, di rimanere in isolamento per stare con se stessi.
La paura non ti fa sentire accettato. La vergogna ti fa vivere con il timore di non uscire, per non essere visti e riconosciuti con disprezzo.
Non è una bella sensazione andare in giro con la paura di contagiare o di essere contagiati, ora che anche in Italia le persone coinvolte sono aumentate.
Porto attenzione a quel delicato confine tra i criteri che le istituzioni hanno adottato, per escludere una potenziale influenza dannosa sull'ambiente e il non allarmarsi, pur cercando di comprendere e di non sottovalutare.
